Ringrazio Fulvio Baralis per averci inviato l’articolo di Massimo Caccin, intitolato
“La bicicletta gialla”, che pubblichiamo in questo numero.
In un primo momento mi sono limitato a proporlo agli altri
componenti della redazione; in seguito mi continuava a ronzare in mente la
voglia di commentarlo. Mi aveva stimolato. Non è che volessi dire chissà che
ma mi aveva colpito, perché mi ero immedesimato in emozioni e
comportamenti che avevo già provato.
Questo “episodio di vita”, come lo definisce l’Autore, ci mette subito in
contatto con un mondo a noi estraneo: quello di un uomo che, per lavorare, è
costretto a fare trenta chilometri ogni giorno, spostandosi con la bicicletta. Per
cui la bicicletta, che per noi rappresenta un mezzo di svago per fare
passeggiate, o per fare sport o, al massimo, il mezzo per spostarci agevolmente
in città per fare brevi tragitti, per tanti è un mezzo prezioso, che acquista un
valore che trascende da quello usuale della “nostra” civiltà. Infatti l’Autore (o
meglio sua moglie) possedeva una bella bicicletta gialla inutilizzata, di cui
quindi non si apprezzava il valore. Primo aspetto che mi ha colpito del
racconto è proprio questo: il valore relativo, conseguente a condizioni socioeconomiche,
delle cose.
Il secondo aspetto è l’immedesimazione nell’Altro, nei suoi pensieri. Infatti
leggiamo: “Camminava da due ore. Chissà quanti pensieri in quelle due ore,
in quei quindici chilometri a piedi tirando una bicicletta con la gomma a
terra”, e più avanti “io nelle sue condizioni avrei pure pianto, chissà lui?”. Ci
pensate? Lui forse avrebbe pianto, lui che, tutto sommato, viveva nel suo
mondo, nella sua città in cui era riconosciuto e conosciuto ed in cui aveva
moglie, figli, parenti e amici. L’Altro, lo straniero da due ore a piedi con la bici
per mano cosa avrà pensato, a chi, ai suoi affetti o si sarà limitato a
considerare la sua condizione come normale? Non mi pare si possa parlare di
civiltà quando le persone considerano le proprie difficoltà, le proprie
sofferenze come una normalità.
Il terzo aspetto è la reazione dell’Autore che, messo di fronte alla disparità di
condizioni fra sé stesso (possessore di una bicicletta inutilizzata) e l’Altro
(bisognoso di una bicicletta per poter lavorare), ha saputo scrollarsi di dosso il
torpore relazionale che troppo spesso condiziona il nostro modo di vivere per
mitigare tale disparità. Ma lo ha fatto in modo controllato, guidato dalla
diffidenza o dalla prudenza (a seconda di come si giudica) che gli ha suggerito
di non svelare il suo numero di cellulare ad un Altro sconosciuto. Sconosciuto
perché straniero, perché diverso, non solo perché incontrato per la prima
volta.
Il quarto aspetto, il più importante, è la gioia che un gesto, considerato con
mente economicista in sé banale (quanto può valere una bicicletta che ha 24
anni?), ha generato non solo in chi ha ricevuto ma anche in chi ha donato.
Purtroppo per un gesto simile ce ne sono molti di più che vanno nella
direzione opposta e cioè verso un mondo relazionale fatto di indifferenza,
cattiveria (spesso inutile), egoismo. Basta questo saldo negativo a farci
desistere, a farci abbandonare i sentimenti?
Non mi dilungo oltre. Vorrei concludere utilizzando le parole del poeta Philip
Larkin, tratte dalla poesia “La falciatrice” che pubblichiamo integralmente più
avanti:
Dovremmo avere cura
gli uni degli altri, e volerci bene
finché ne abbiamo ancora il tempo
Gianfranco Conforti
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