È recente la sentenza della Corte d’Assise di Roma sulla morte di Stefano Cucchi. Non entro nel merito. Una cosa, però, mi ha colpito: il baciamano fatto dal Maresciallo superiore Salvatore Caporaso alla sorella del geometra morto a causa delle percosse subite. Il maresciallo ha affermato che è stato un gesto spontaneo, determinato dalla conoscenza della famiglia Cucchi avvenuta in questi anni di dibattimento processuale.
Ma, oltre al gesto di educazione e di galanteria, ho percepito altro. Sarà una mia impressione, anzi senz’altro lo è, ma in quel gesto ho visto la voglia di liberarsi di un peso. Vi ho visto il desiderio di lavare l’uniforme dell’Arma a cui lui appartiene e che è stata oltraggiata dal comportamento di alcuni commilitoni.
Ecco che inizio ad affrontare il senso di queste mie riflessioni: anche in ambienti in cui vige l’ordine dell’obbedienza ai superiori e dell’uniformità (dove non a caso si indossa un’uniforme) si può alzare la testa, ci si può esporre per ciò che è giusto e non adagiarsi nell’opportunismo.
Un fatto analogo, seppur con molto meno clamore mediatico, è avvenuto in ambito psichiatrico. Mi riferisco al caso della morte di Francesco Mastrogiovanni, ricoverato in regime di Trattamento Sanitario Obbligatorio presso la psichiatria di Vallo della Lucania, avvenuta dieci anni fa; nel 2009, proprio come Stefano Cucchi. È notizia di questi giorni la lettera1 in cui un infermiere del reparto chiede scusa alla famiglia di Mastrogiovanni, ammettendo che il comportamento di chi doveva assisterlo fu barbaro. Anche in questo caso non entro nel merito ma mi limito a sottolineare che tutti gli articoli sottolineano come il paziente fu tenuto legato per più di 80 ore senza mangiare né bere e la constatazione della morte avvenne sei ore dopo il decesso.
Si può mantenere l’umanità anche in trincea? Mi ritornano in mente le parole che scrisse Luciano Jolly: “affermare il diritto al sentimento, nel maschio, è quasi un atto rivoluzionario: in tutte le caserme del mondo si è insegnato che esso è una debolezza”2. In certi ambienti sembra che non ci possa essere spazio per tentennamenti romantici, perché chiamati ad assolvere compiti a contatto con l’urgenza, con la violenza, con pericoli da gestire. Eppure vi è chi non accetta l’omologazione all’urlo, alla sopraffazione, alla cieca obbedienza agli ordini, all’essere sbrigativi. Penso che anche dove il conformismo ti induce a violare o, nella migliore delle ipotesi, a non curarti dei diritti di chi viene a contatto con te in una posizione più debole sia giusto opporsi. Certo ciò non rende la vita facile perché si entra nel campo dell’eresia. Lo sottolineano chiaramente Giulia Bonavia e Alessandra Ferrari quando scrivono che “eretico è chi si ribella al sonno delle coscienze, chi non si rassegna alle ingiustizie”3. Eppure opporsi alla violenza è non solo eticamente giusto ma anche utile onde impedire che il sonno della ragione causato dal conformismo e dall’abbruttimento generi effetti non calcolati, non voluti. Ma mi preme, qui e ora, sottolineare che occorre saper dire no a certi comportamenti non solo perché possono essere egoisticamente dannosi.
Occorre farlo perché è giusto e basta.
Gianfranco Conforti
1 – Vedi, tra i molti articoli, https://www.ilmattino.it/salerno/caso_mastrogiovanni_la_lettera_siamo_stati_barbari_nell_assistere_franco-4869146.html;
2 – Luciano Jolly, Un ciclo della vita, in Gianfranco Conforti, Sarà bello rivederti, Fusta Editore, Saluzzo, 2011, pag.4;
3 – Giulia Bonavia e Alessandra Ferrari, La scia di un aereo, in Rendiconti Cuneo 2019, pag.172.
questo articolo uscirà anche su IL GRANELLO DI SENAPE di Dicembre 2019
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