DA stefania.biasi@apss.tn.it
Data: 5 giugno 2020 alle 17.01
A menteinpace@libero.it
Eccoci nel bel mezzo di un periodo tanto difficile quanto per certi versi surreale, un periodo sconosciuto che ha modificato le nostre vite nella loro quotidianità più profonda. E il lavoro non poteva certo non esserne colpito… Da quando è partito il lockdown abbiamo ricevuto disposizioni relative a come modificare la nostra operatività lavorativa nell’interesse sia degli utenti che degli operatori, al fine di limitare il più possibile le occasioni di contatto ravvicinato tra persone e, quindi, la diffusione del virus. In primis abbiamo ricevuto l’indicazione di sostituire l’attività ambulatoriale ordinaria con colloqui telefonici o videochiamate (modalità “in remoto”), fatta eccezione per le urgenze o tutti quei casi dove il malessere è tale da necessitare comunque un colloquio faccia-a-faccia in ambulatorio o al domicilio. Tutti gli incontri di rete, poi, coinvolgendo per definizione più persone, sono rimandati oppure sostituiti con incontri in remoto utilizzando le varie piattaforme di videochiamata (“meet” per esempio). Praticamente dal mese scorso trascorro gran parte del mio tempo lavorativo al telefono e la cosa, confesso, non mi rende troppo felice preferendo di gran lunga avere uno scambio vis-à-vis con qualsivoglia interlocutore (per quanto condivida in pieno le misure adottate si intende..). Quando hai di fronte una persona, un silenzio, uno sguardo o un piccolo gesto possono acquisire un significato o comunicare una sfumatura del tutto particolari che al telefono si perderebbero. Devo dire, però, che la “fatica” nell’utilizzare per molto tempo il telefono viene ripagata da conversazioni che in questo periodo percepisco intense in maniera speciale. Mi capita molto spesso, ad esempio, che gli utenti mi chiedano come mi sento io. E lei come sta dottoressa? Ed è un interesse autentico, non c’è alcuna formalità né retorica. Ed io allora racconto un po’ di me, della difficoltà di conciliare in questo momento casa e lavoro data la chiusura delle scuole, della speranza che ci si possa rivedere presto... Una sorta di comunione di emozioni e di intenti che passa anche attraverso i fili del telefono… Quanto alle varie piattaforme per videochiamate e quant’altro, da analfabeta digitale quale mi considero, mi sono trovata un po’ spiazzata all’inizio ma, per fortuna, l’utilizzo di questi sistemi non è complicato e la mano si prende facilmente. Anche in questo caso non è certo paragonabile ad una conversazione imbastita tra persone che si trovano nella stessa stanza, ma devo dire che si sono rivelate uno strumento utile soprattutto per mantenere la comunicazione con le comunità e con gli altri Servizi e garantire così quel lavoro di rete fondamentale a maggior ragione in questo periodo. Infine le mascherine e il non poter dare la mano alle persone… quest’ultimo aspetto forse mi turba più di tutto. Stringere la mano contiene in sé il senso di sancire un patto, significa “grazie” oppure “mi fido di te” o “conta pure su di me”. Ecco, le vie di comunicazione eteree hanno il grosso difetto di eliminare ogni forma di fisicità di cui c’è pur bisogno… Ma ora è il tempo di restare vicini anche se lontani, fiduciosi che si possa tornare presto ad un sano acceso confronto tra le quattro mura dell’ambulatorio medico! O in qualunque altro luogo, non importa dove…
Paola Santo
Tratto da: LIBERALAMENTE , Il giornale del fareassieme della salute mentale di Trento, n. 137, maggio 2020, pag. 3
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