PAURA
La paura è una delle emozioni più difficili da gestire, soprattutto in carcere.
DA fabripel64@gmail.com
24/10/2021 18:26
La struttura stessa del carcere incute paura con la sua architettura cupa, con l'eco lugubre dei chiavistelli aperti e subito richiusi, con i lunghi corridoi deserti. Anche i colori delle pareti trasmettono tristezza. Il carcere si presenta ancora come uno spazio punitivo, al di là di ogni buona intenzione di chi vorrebbe che fosse, invece, un luogo di riabilitazione.
Forse sarebbe meglio continuare a chiamarlo penitenziario, perché di fatto continua ad essere - almeno agli occhi dei più - un luogo di penitenza che deve funzionare da deterrente per chi sta fuori. Un luogo che deve incutere paura, che si addita ai bambini per farli ubbidire. Più paura incute, meglio è.
Chiunque sia passato vicino al muro di cinta di un carcere non può non aver provato disagio e paura. Paura di poterci finire dentro. "finire in carcere": un'espressione rivelatrice. Il carcere è percepito come la fine della libertà, quindi di una parte essenziale della vita. Al carcere si associano di solito termini negativi come privazione, punizione, penitenza, caduta, perdita. Come potrebbe non fare paura? La paura è parte integrante della missione che gli viene attribuita dalla gente.
Il livello iniziale di paura, quello che si prova quando si entra per la prima volta, si supera dopo qualche giorno, quando si scopre che anche in un luogo così spaventoso resiste un forte senso di umanità.
Si viene accolti dall'abbraccio dolente di altri uomini, che continuano a essere uomini. Dietro le facciate di cemento e le grate di metallo pulsa la vita di persone che cercano, per quanto possibile, di mantenere i riti di una quotidianità domestica.
La paura fisica lascia presto il posto ad altri tipi di paura, più legati alla propria situazione personale, che riguardano la famiglia, il lavoro, quello che dirà la gente.
Sono paure che avvelenano i pensieri, che si alleviano solo quando si riesce a condividerle con qualche compagno. Soltanto così ci si rende conto che le proprie paure sono simili a quelle di quasi tutti i detenuti. Con queste paure si impara a convivere. C'è un altro genere di paura che segue un percorso diverso: invece di attenuarsi, si amplifica col passare del tempo e raggiunge l'intensità maggiore a ridosso della fine della pena. è la paura del "dopo". Che cosa accadrà quando si apriranno le porte del carcere? È una paura più invasiva e subdola delle altre. Può spingere al punto di credere che "dentro" sia meglio che "fuori", che il carcere sia una protezione, un luogo sicuro in cui nascondersi. Anche in chi si dichiara impaziente di uscire, mano a mano che la data dell'uscita si avvicina, si nota un'irrequietezza maggiore. Spesso non si tratta solo di una comprensibile preoccupazione legata alla difficoltà di riprendere una vita normale uscendo dal carcere, ma di una vera e propria fobia. Il futuro fuori dal carcere per molti detenuti è un'incognita opprimente. Questo vale sia per chi ha famiglia e lavoro all'esterno, sia per chi non li ha.
Come reagiranno i familiari, gli amici, i colleghi? Come saranno gli sguardi della gente per la strada, al supermercato, al bar?
Cresce la paura di provare vergogna, di restare soli. È una sorta di fobia dell'abbandono, ma non soltanto questo. È paura di non riuscire a sopportare la vita oltre l'espiazione della pena. si avverte un senso di inadeguatezza, di inferiorità che esclude dalla comunità degli uomini "normali". La propria umanità sembra diminuita, monca, sgraziata. È come se un campanello odioso ci precedesse sempre, dappertutto e ricordasse la nostra menomazione. La paura sembra svelarci un segreto che ci riempie di orrore: non c'è rimedio alla colpa, il carcere non ci priva soltanto della libertà per un periodo, ma ci priva per sempre della possibilità di vivere pienamente la vita, prigionieri del senso di colpa e del rimorso. La pena vera non è, dunque, dentro, ma fuori. È una rivelazione che ci toglie il sonno. Turbinano nella nostra mente parole che ci sembrano inganni: riabilitazione, reinserimento sociale, rieducazione… siamo stati davvero ingannati? I giorni passano e la paura cresce, fra tentativi amichevoli di conforto e rassicurazione da parte di chi ci sta vicino.
Soltanto se abbiamo imparato a conoscerci e ci siamo aperti alla possibilità di un profondo cambiamento interiore, riusciamo ad affrontare e ridimensionare la paura del "dopo", a trasformarla in qualcosa di utile: in cautela, ad esempio, in capacità di riconoscere e gestire le difficoltà.
Se riusciamo a vedere dentro di noi, la nostra paura diventerà prudenza e ci guiderà insieme al coraggio ottenuto con la trasformazione della rabbia.
Nessuno può liberarci dalla paura: soltanto noi stessi possiamo farlo. Scopriremo così che la nostra umanità non è stata menomata, ma rinvigorita. Saremo uomini nuovi.
Fabrizio Pellegrino
Tratto da F.Pellegrino, La coscienza dell’ombra (Nerosubianco, 2020)
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