La questione della residenzialità appare centrale in una psichiatria che ha sempre meno idee, risorse e personale.
DA Quotidiano Sanità
04/09/24 - 21:53
A dispetto di una scarsità di dati attendibili sui suoi effettivi risultati terapeutici e riabilitativi, lo sviluppo di strutture residenziali è stato, fin dall’inizio della psichiatria post 180, un elemento imprescindibile nella organizzazione dei servizi. Un qualcosa che doveva comunque esserci, attingendo da una parte dalla idea che comunque trovarsi in una situazione di umana convivenza, contrastando emarginazione ed isolamento, fosse di per sé terapeutico/riabilitativa, e dall’altra dallo spettro sempre aleggiante che la collocazione in istituzioni alla fine fosse l’unica soluzione praticabile per tanti problemi psichiatrici.
Quando sono comparse le modalità riabilitative comprovate EBM e ci si è accorti che non richiedono luoghi speciali, ma anzi contesti del tutto “normali” e quotidiani, anche nei rari servizi in cui sono state effettivamente utilizzate, non hanno comunque cancellato il privilegio dato ai luoghi, dove conta più dove si trova il paziente, rispetto alle attività che vi si fanno. Le comunità bisogna averle, a ricordarci che comunque la psichiatria è anche (e talvolta soprattutto …) collocazione in luoghi.
Mentre da più parti (ed in taluni disegni di Legge) si sottolinea la progressiva espansione della residenzialità, letta come il fallimento di quella effettiva riabilitazione e piena restituzione ai contesti sociali che la Legge 180/78 sembrava promettere, altri segnalano come sia in atto un progressivo contenimento, appoggiandosi in particolare su taluni dati del Sistema Informativo Salute Mentale (SISM).
E’ necessario pertanto cercare di capire questi dati e che cosa indichino realmente.
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Tratto da:
https://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=124074&fr=n
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