di S. Scelsi, A. De Belvis, G. Banchieri, A. Vannucci
DA Quotidiano Sanità
sa 09/11/24 - 01:24
“La solitudine non è solo assenza di persone. È la mancanza di scopo, la mancanza di significato. Quando ti vedi in un mondo dove tutto sembra alienato e distante, dove ogni connessione è superficiale e ogni sforzo di comprendere è accolto con indifferenza, ti accorgi che la vera solitudine non è solo essere soli, ma sentirsi soli in un mondo che ha perso di significato”
(Haruki Murakami)
Premessa
Con la pandemia da SARS-COV-2 la “solitudine” - attraverso il suo termine sanitario “isolamento” - ha subìto una inversione di significato.
Essere isolati, da soli, distanziarsi fisicamente dalle altre persone ha, almeno in parte, smesso di essere visto in maniera stigmatizzante ed ha assunto per certi versi un tratto quasi salvifico. La paura dell’altro come portatore di malattia si è incardinata nelle nostre pratiche sociali e inconsapevolmente ci siamo tutti ammalati. Ma questo deriva dalla pandemia? Oppure la pandemia ha accentuato e sanitarizzato un processo che era iniziato prima di essa, congenito alla natura della società del tardo capitalismo e del ventunesimo secolo?
Nel 1948 l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva definito la “salute” “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Si trattava di un approccio che definiva salute non come assenza di malattia, bensì come condizione soggettiva dell’individuo. Allo stesso tempo la “salute” veniva riconosciuta come un “diritto fondamentale di ciascun essere umano senza distinzione di razza, religione, credenza politica, condizione economica o sociale”.
Questa definizione di salute supera la visione tradizionalista che definiscono la salute in termini puramente biologici. Questa, infatti, non distingue il benessere fisico del proprio corpo dal benessere più generale, psichico e sociale dell’individuo in quanto “persona”.
La definizione dell’OMS, quindi, afferma l’intrinseca relazione tra il sé e il corpo, rendendo il benessere del primo indistinguibile dal benessere del secondo, tenendo conto del più generale quadro entro il quale gli individui agiscono le proprie vite. Questa definizione tiene anche conto della diversa importanza assegnata da individui diversi a uguali condizioni fisiche: una stessa condizione può essere poco significativa per una persona e risultare, invece, invalidante per la vita di un’altra.
Il secolo della solitudine …
Sulla scia di Zygmunt Bauman1, Noreena Hertz nel suo “Il secolo della solitudine”2 sostiene che la solitudine sia un prodotto della disgregazione del senso di “comunità” imposta da decenni di sviluppo senza limiti e condizioni del neoliberismo/globalizzazione, che ha portato a vederci l’un l’altro come individui e non come gruppi sociali, comunità e collettività, trasformandoci così da “esseri sociali” in piccole monadi che competono tra loro.
Come una “medicina”, la tecnologia è rimedio e cura perché ci permette di risolvere problemi, sperimentare cose precedentemente impensabili, e per alcuni aspetti semplificarci la vita., ma allo stesso tempo, è anche un “veleno”, perché mentre lo fa, ci contamina, avvelenando la nostra (presunta) condizione sociale ed umana originale. Come un medicinale, la tecnologia presenta possibili controindicazioni. Leggere attentamente le avvertenze. Cosa che, invero, con la tecnologia nel sociale capita molto raramente.
In questa prospettiva di lettura del nostro contesto di vita Noreena Hertz rappresenta un contributo importante nel farci capire le relazioni esistenti tra solitudine e agire sociale, e ci invita a non semplificarne la narrazione. Toccando questioni fondamentali come il lavoro e la democrazia, Hertz evidenzia il cortocircuito esistente nell’architettura del tardo capitalismo ed in specie nel suo stadio terminale, sottolineando la necessità di un ripensamento complessivo. Non è un caso che in tutte le Università più prestigiose sia in atto ormai una riflessione su come governare la “globalizzazione” non più vista come una prospettiva di sviluppo lineare ed evolutiva. Tutte queste dinamiche impattano sulle condizioni di vita e di salute delle persone, salute intesa come equilibrio psico-sociale
Numerose ricerche internazionali hanno dimostrato che la solitudine aumenta di 1/3 lo sviluppo di malattie neurologiche e di patologie disabilitanti. In USA i servizi sanitari hanno denunciato l’impatto sociale ed economico e di salute della solitudine. L’OMS ha dichiarato la solitudine “problema di salute pubblica globale” (2024).
La solitudine come causa di patologie invalidanti ….
Tre adulti su cinque negli Usa si considerano soli. In Europa la situazione è simile: quasi un terzo dei cittadini olandesi ha ammesso di essere solo, uno su dieci profondamente; in Svezia un quarto della popolazione ha detto di essere solo frequentemente; in Svizzera due persone su cinque hanno dichiarato di sentirsi a volte, spesso, o sempre sole; nel Regno Unito il problema era diventato talmente grave che nel 2018 il Primo Ministro è arrivato al punto di nominare un Ministero della Solitudine.
In Italia una survey pubblicata sul “Corriere della sera” ci dà uno spaccato inedito anche nel nostro Paese.
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Tratto da:
https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=125639&fr=n
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