Serena Braschi è madre ed è attivista. È una donna di novant’anni su una sedia a rotelle che ha lottato e continua a lottare a suo modo nella casa che condivide con una badante e il figlio malato. Ovviamente non è sempre stato così. Da ragazza amava l’arte e l’ha insegnata a scuola a Milano.
DA Sogni & Bisogni
sito di Associazioni per la salute mentale e del DSM di Bologna
23/12/2024 12:38
A menteinpace@libero.it
di Federico Mascagni, redattore di Sogni&Bisogni
Poi si è sposata e ha avuto un figlio. Quando sua madre si ammala, per prendersene cura, Serena torna con la sua nuova famiglia a Bologna. Ed è in questo periodo che suo figlio, adolescente, comincia a dare segni di squilibrio, distruggendo casa. Il padre coltivava sogni grandiosi per lui, lo vedeva con una laurea in ingegneria in tasca e un ruolo importante nella società. E queste, secondo Serena, sono ingerenze dei genitori molto sbagliate. Ma vai a capire cosa sviluppa questi disturbi. È difficile, dice Serena, vedere dall’interno del nucleo familiare i primi segnali di una malattia mentale. Ma quando esplode una crisi bisogna intervenire subito.
“Mi sono rivolta all'Ausl di Bologna, alla
psichiatria, per vedere come fare. Non sapevamo come curarlo. Era il 1985 e a Bologna la psichiatria era un disastro. Noi
familiari eravamo trattati con sufficienza: ti davano l’appuntamento alle 9 e 30, andavi puntuale, anzi magari in anticipo, e poi ti ricevevano alle 10 e 30, alle 11. Ero al loro servizio. Lo fai
una volta, poi due, poi ti stanchi. Fu allora che capii che se mi presentavo come semplice familiare non mi consideravano, mentre se avessi messo avanti un’associazione mi avrebbero rispettato”,
dice Serena.
Serena comincia a cercare realtà che possano essere di riferimento. Entra in contatto con numerosi familiari, tutti in gravi difficoltà, chi con un figlio, chi con una sorella malati di mente. Fra questi familiari incontra Ramona che, oltre a essere particolarmente combattiva, possiede un preziosissimo computer. Compie delle ricerche per trovare altrove un’associazione che a Bologna non si trova, e individua a Oderzo, nel trevigiano, Aitsam onlus, che oltre a occuparsi di prevenzione, cura e riabilitazione della malattia, ha dei centri sociali di accoglienza per persone con disagi e una cooperativa di tipo B.
“Abbiamo preso il treno e siamo andate. Abbiamo incontrato Tali Corona, la presidente, una donna forte che era abituata ad andare a Roma per incontrare i vertici della politica e delle istituzioni. Aveva fatto tante sezioni nel Veneto, dava lavoro ai ragazzi, aveva trovato un capannone dove imbustavano le lettere per una ditta. E il Comune finanziava i loro progetti. Faceva delle cose che noi ce le sognavamo qua a Bologna. Per questo decidemmo di fondare una sede Aitsam per l’Emilia-Romagna”.
Siamo giunti al 2004
e Serena e Ramona scoprono un coordinamento di familiari e di associazioni e che si trovavano una volta al mese in Regione. Si
tratta della Consulta regionale per la salute mentale dell’Emilia-Romagna. In questo contesto raccolgono le esperienze più interessanti delle associazioni del territorio. Sono anni in cui,
racconta Serena, a Bologna non si muove granché, a eccezione di qualche realtà che si pone con un forte senso critico nei confronti dell’istituzione psichiatrica. Ma Serena a un certo punto
decide di smontare le barricate perché ritiene siano maturi i tempi della collaborazione con l’Ausl.
È il 2010. “Arriva a dirigere il
Dipartimento di salute mentale di Bologna Angelo Fioritti, uno psichiatra orientato alla collaborazione con i familiari. Viene
creato il Cufo (il Comitato che riunisce utenti, familiari e operatori). Da quel momento inizia un rapporto dialogico, allo stesso tavolo, fra associazioni e istituzioni”. Si può dire che il
racconto della storia della psichiatria bolognese, vista dalla parte dei familiari, per Serena finisca qua, nel senso che lei passa il testimone ad altre mamme anche se vede nascere iniziative
importanti fra progetti e strutture, ultima la Casa di Tina dove Aitsam prende la sede. Ma la storia di Serena, madre di un uomo diagnosticato come schizofrenico, continua ancora
oggi.
“Io ho mio figlio in casa, dove c’è movimento, non è una casa morta. Ma ci sono ragazzi che sono lasciati a loro stessi perché i genitori o non ci sono più o non sono in forze. Gli psichiatri sono soddisfatti quando assegnano una terapia farmacologica, invece queste persone hanno bisogno di una vita normale. A mio figlio ad esempio non gli va di stare con altri malati. Abbiamo la fortuna di andare al mare d’estate e ho visto che quando siamo là, quando andiamo a mangiare il pesce nei ristoranti sulla spiaggia, lui sta meglio. Quest’estate è venuta a trovarci la mia badante con le sue due figlie. Facendo vita comune piano piano mio figlio ha cominciato a parlare, perché sentiva di essere a contatto con persone non malate. Per questo penso che sarebbe importante incentivare il volontariato giovanile”. Serena riesce a fare uscire di casa suo figlio grazie a Mirko, un operatore con cui ha stabilito un rapporto di amicizia.
Nella sua lunga esperienza di madre e attivista, Serena ha imparato a
non fare troppo affidamento sulle diagnosi, che le sembrano tutte uguali, e sui farmaci, tutti diversi ma nessuno veramente
risolutivo. Ha combattuto la psichiatria non dialogante, ha collaborato con quella capace di coinvolgere nelle decisioni utenti e familiari. È consapevole che si tratta di un ambito complesso,
misterioso, enigmatico. Ma ciò che vede è che più passa il tempo più cresce l’urgenza di affrontare questo disagio che si sta diffondendo soprattutto nei più giovani.
Ascoltando la sua importante esperienza si capisce che la medicina migliore è l’integrazione relazionale e lavorativa, che fa uscire dal ghetto del rapporto esclusivo fra malati. E auspica un futuro in cui chi sta bene sia vicino e si prenda cura di un proprio coetaneo che viva una sofferenza, che questa diventi abitudine più che scelta. Perché nessuno deve restare indietro.
Tratto da:
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Susanna Brunelli (lunedì, 30 dicembre 2024 09:59)
Articolo molto interessante , che mi coinvolge emotivamente.
Grande donna !
Silvana Palleria (martedì, 31 dicembre 2024 10:46)
Grazie per questa esperienza condivisa che ci fa sperare, incoraggiando a continuare nel volontariato che supera anche le barriere del tempo.