Giangi Milesi: «La mia vita da Forrest Gump. Anche scrivendo resisto al male»
di Massimo Laganà
intervista segnalata da Mario Figoni
presidente dell’Associazione Fiori sulla Luna
11/01/2025 - 11:24
Venerdì 21 Febbraio 2025 il libro verrà presentato a Cuneo
Raccontare è il mio mestiere non è solo un viaggio personale, ma un invito a piantare alberi e seminare futuro, a non trascurare le storie che ci uniscono e a continuare a lottare per un mondo migliore.
(Dal sito della Casa Editrice "Scatole Parlanti")
Il libro di Giangi Milesi, «Raccontare è il mio mestiere». Un'autobiografia: «La mia resilienza al Parkinson è concreta, tangibile»
Le mille vite di Giangi Milesi, orobico doc, 71 anni: funzionario regionale; pubblicitario; leader storico del Cesvi; presidente della Confederazione Parkinson Italia. E scrittore. L’ultima fatica si intitola Raccontare è il mio mestiere. Leggere, invece, è stato il nostro piacere. Perché il libro è un nastro srotolato, che conduce dritto al cuore dell’autore.
Pubblicare un’autobiografia è un atto di generosità o un eccesso di narcisismo?
«Forse tutt’e due, sostiene Lella Costa, che ha firmato la prefazione del volume. La ricerca di riconoscimenti è legittima. Un complimento è una carezza. Soltanto i sentimenti incontrollabili
sono pericolosi. Occorre sempre un pizzico di autocoscienza».
L’importante è avere in mano la situazione, canterebbe Lucio Dalla. Rimaniamo sugli ossimori. Lei parla di rinuncia a sé, ma il libro è percorso da una compiaciuta vanità.
Come tiene assieme le due cose?
«Dovremmo rinunciare ai mestieri gratificanti? Sono proprio i maestri a raccomandarci di lavorare su ciò che si ama. È per vocazione che Madre Teresa è diventata famosa e ha ricevuto il Nobel per la pace. Nessuno l’ha accusata di vanità e due Papi l’hanno fatta Santa».
Insomma, la gratificazione non è peccato.
«No. È però doveroso curare la propria integrità. Senza accorgercene, veniamo sospinti quotidianamente in direzione dell’invidia. O dell’avidità. Pulsioni contro cui dobbiamo montare la guardia. Perciò non credo che un’autobiografia sia un mero sfogo narcisistico. È un atto che, paradossalmente, ci aiuta a schivare l’autoreferenzialità».
Scrivere stanca?
«Raccontare è il mio mestiere è stato faticoso, perché molte parti le ho riformulate completamente; altre le ho cancellate di mia iniziativa. Dalle quattrocento pagine dell’ultima stesura, sono sceso a 242».
Ci sono brani che risalgono al secolo scorso. Conferma?
«Il più vecchio è del ’93. Mi chiesero un punto di vista sul Sessantotto. Restai deluso, quando il pezzo non fu pubblicato. Eppure l’analisi mi pareva penetrante. Ora l’ho inserita nel libro. Ho la presunzione risulti utile a chi vuole approfondire l’argomento. La rivolta studentesca ebbe una valenza economica e sociale, più che politica».
Perché si è paragonato a Forrest Gump?
«“Forrest Gump de’ noantri”, per la precisione. Commentavo con mia figlia Giovanna il film di Robert Zemeckis e ci rendemmo conto che Forrest Gump risulta casualmente onnipresente negli avvenimenti epocali , da comparsa, mai da protagonista: è un anti-eroe per eccellenza. Mi è successo qualcosa di simile. Ho partecipato alla nascita delle televisioni berlusconiane, al salvataggio del Corriere e della Rizzoli dalle grinfie della P2, alla trasformazione della Scala in fondazione. Et cetera, et cetera… Magari in seconda o terza fila, ma c’ero. Ci sono stato».
Lei si definirebbe un creativo?
«Accidenti! C’è creatività in ogni pagina dell’autobiografia. Ho dedicato energie a coltivare questo talento e spero mi sia riconosciuto».
Cos’è stato il Cesvi per lei?
«L’Ong bergamasca è la chiusura del cerchio. La sintesi: il tentativo riuscito di unire le finalità sociali con la professione, il lavoro con la passione. Il “chief dreamer”, il capo sognatore, non è semplicemente una figura innovativa: è una visione organizzativa. Un mondo nuovo».
Lei è sceso a patti con la malattia?
«Ho dovuto. Per non soccombere. Il libro è una delle risposte. La mia resilienza al Parkinson è concreta, tangibile. Resistere con l’iniziativa rende la cura più efficace e dà senso alla vita».
Del libro colpiscono la tenera dedica alla figlia quasi quarantenne e la felice descrizione delle radici bergamasche. Il volume è un atto di testimonianza intergenerazionale? Un passaggio di consegne?
«Sì. È necessario conoscere il passato. Per correggere i “difetti”. Uno dei più gravi limiti degli italiani è il campanilismo. Che incide sul sistema sociale nazionale pubblico, privato, profit e non profit. In qualsivoglia campo la frammentazione frena lo sviluppo. Il campanilismo non è sana concorrenza, che significa correre insieme verso un traguardo condiviso. No. Il campanilismo io l’ho ribattezzato “sindrome da palio di Siena”. Perché è una competizione gelosa, malevola. Chi vince, è felice per l’insuccesso del competitor».
È vero che si nasce incendiari rivoluzionari e si muore pompieri?
«Sì. Siamo condizionati da quanto ci circonda. E dal tempo che scorre».
Ha più rimpianti o desideri?
«Il mio unico rimpianto è non aver studiato. Quanto ai desideri… Se non ci fossero, non ci sarebbe nemmeno la voglia di vivere. E io ne ho ancora tanta. Un anno e mezzo fa, mi hanno tagliato via 26 centimetri di colon; credevo che la partita fosse finita. Invece è ricominciata, lenta e faticosa. Infinitamente bella».
Qual è stata la gioia più grande?
«Assistere al parto di mia figlia. Sono stato un ragazzo fortunato. Pardon, sono un padre fortunato».
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