GRANDE ONDA, PICCOLE ONDE (Chiara Drago)

 

Scoprendo ai margini della Storia il ruolo delle donne, depositarie da sempre di drammi, gioie, scelte eroiche, cambiamenti epocali.

 

Questa storia è stata segnalata da Stefania Garini dell’Associazione Volontari Ospedalieri (AVO) di Torino alla mail di MenteInPace (menteinpace@libero.it)

in data 19/08/2023 – ore 09:03

 

Testo tratto da: Le Storie siamo noi, Donne di Parola, Fernandel 2023, pp. 288

59 racconti di diciotto autrici, per un viaggio nel tempo dal 1908 al 2021, dove la Storia incrocia vicende vissute in prima persona o sentite narrare da testimoni ormai scomparsi.

 

 

Marzo 2011 Il suo nome è Cassandra.

Per naturale propensione a pensare sempre al peggio, vaticinando ogni tipo di disastro, in altri tempi non avrebbe chiuso occhio nell’attesa che una catastrofe colpisse anche lei.

In Giappone, dopo un violento sisma e un maremoto, diversi reattori della centrale nucleare di Fukushima erano esplosi, scatenando un dramma simile solo al disastro di Cernobyl. Migliaia di morti per le radiazioni e per l’immenso tsunami che aveva spazzato via navi, treni, edifici, interi quartieri, trascinando tutto con sé. Ma nel mese di marzo 2011, lei era occupata a gestire i suoi tsunami. Onde di dolore, senso di soffocamento, denso terrore, giorno dopo giorno le stavano costruendo dentro un comodo nido. Non era la solita risacca di emozioni, allegra-triste-arrabbiata-felice, caratteristica del suo carattere, che sin da piccola tutti avevano sempre archiviato come “…ma sì, è strana, è solitaria, ma è creativa. Crescendo le passerà.” La nonna diceva che aveva le lune, che era una “stròluga”. Insomma, una rompiscatole simpatica cui non dare molto conto. Con l’adolescenza le onde erano diventate più forti. L’afferravano alle spalle, la scuotevano strattonandola fino a farle male. Per qualche ora la lasciavano tranquilla ma intontita, poi si sentiva cadere, provava a rialzarsi e ricadeva. Aveva perso così gli anni felici del liceo, tante feste, tanti potenziali amici. Aveva abbandonato l’università perché si era convinta di non esserne all’altezza. Aveva abbandonato un amore importante, forse l’unico reale e possibile della sua vita, non aveva lasciato arrivare i figli che avrebbe potuto avere. Era scappata. Da tutto. E, scappando scappando, perso il poco che aveva, intorno si era costruita il niente. I momenti di sconforto, sempre più ravvicinati, la facevano piangere, ridere, urlare, con l’anima in subbuglio. Aveva smesso anche le attività che amava di più, musica e lettura, per non essere ferita da un suono o da una frase. Aveva iniziato a essere sospesa in un limbo dove era rimasta parecchio, perché dopo l’incubo arrivava la quiete. Una mattina apriva gli occhi ed era tutto finito, come al risveglio da un brutto sogno. Si alzava sorridente, come se i giorni o le settimane di nulla si fossero cancellati. Vedeva le infinite possibilità che la vita le offriva. Lavorava meglio, reagiva attivamente a ciò che le accadeva intorno. Si sentiva pacata, più forte, quasi potente. Era dolce, spigliata, brillante, mondana, amabile. Vittima da sempre di disturbi dell’alimentazione, era diventata snella e consapevole del proprio corpo. Una gioia anche per chi le era vicino. Fine del tunnel. Credeva. Poi, senza nessuna avvisaglia, era ricominciato tutto. Ma più forte e senza requie. E ogni volta una voce che rimbombava le diceva che non era un periodo passeggero. Era Cassandra. Era fatta così.

 

Giugno 2011 – pomeriggio.

Non ricorda che giorno della settimana fosse. In Giappone si erano rimboccati le maniche e stavano ricostruendo senza sosta. Lei si andava sgretolando. La gente cominciava a farle il vuoto intorno come fosse contagiosa. Fino ad allora non aveva mai mancato un impegno? Lasciò di punto in bianco il lavoro. Erano amici. Non li aveva mai più sentiti. Le giornate diventarono orizzontali: occhi chiusi, veglia e pianto. Trattava male tutti, ma spesso non ne era consapevole. Altre volte controllava meticolosamente le parole per non essere catalogata come malata. Non usciva. Non si lavava. Gli altri pensavano di avere di fronte una persona con poca forza di volontà che si lamentava senza sosta. Le dicevano che in fondo non aveva un male mortale, che quelli che hanno un cancro o una “vera malattia” avrebbero ringraziato di soffrire soltanto di un po’ di tristezza. Lei avrebbe desiderato scomparire, ma fingeva che la cosa non la ferisse. Raramente aveva provato tanta vergogna, perché, alla fine dei conti, pensava proprio la stessa cosa. Controllava ossessivamente lo sguardo, che a un certo punto si era spento come si spengono le luci nei saloni dopo la festa. Guardandosi allo specchio non si riconosceva. Aveva cercato le sue foto di bimba: in alcune rideva tanto da avere gli occhi a mandorla, così tirati per la gioia che pareva fossero loro a sollevare le labbra al sorriso. In quel giugno Cassandra aveva fatto ufficialmente conoscenza con la malattia mentale. Aveva vissuto i suoi primi cinquanta minuti di terapia. Non è importante cosa sia successo nello studio della dottoressa, ma era stato piuttosto faticoso. Il ricordo più vivido è il viaggio andata e ritorno con la madre. Nel tiepido pomeriggio estivo, abbarbicata al suo braccio, versava lacrime copiose dalle parti di via Tripoli. C’era un bel sole, un’invitante gelateria artigianale e la brezzolina: in un altro momento sarebbe stato delizioso. Invece si stava preparando ad affrontare la spazzatura che per quarant’anni aveva raccolto e nascosto diligentemente. Sua madre, con lo sguardo che tanto spesso la fa arrabbiare perché sempre sicuro e fermo, l’aveva incoraggiata a entrare nel portone senza dire una parola. Solo un cenno affermativo con il viso, come si fa con i bambini che non vogliono entrare in classe. E poi alla fine, quando era scesa dalle scale, il suo abbraccio. Non le aveva chiesto niente. Tanto sapeva che non le avrebbe detto una parola. L’aveva quasi afferrata e aveva proposto un buon gelato. Il tempo di finire il cono ed erano arrivati i primi minuti di pace.

 

Volete un lieto fine? Non c’è…

Naturalmente, la protagonista del racconto non si chiama Cassandra. Soffre di disturbi gravi dell’umore e di depressione maggiore. Almeno crede: la dottoressa - lei non ha mai capito se per approccio terapeutico o per intuizione del suo carattere ipocondriaco - non le aveva mai detto cosa avesse. E di questo la ringrazia. Con il tempo ha imparato a non vergognarsi troppo. Qualche volta riesce anche a non sentirsi in colpa. Certi giorni sta bene, altri non va, altri ancora è tutto cupo e fatica a portare a termine la giornata. La sua fedele compagna era con lei quando ancora non se ne rendeva conto. Adesso sa che vive silenziosa al suo fianco. Almeno lei non la abbandonerà mai. Per una che ha paura dell’abbandono è pur sempre una certezza. Con gli anni la frega con piccoli trucchetti per evitare di commettere sciocchezze: nei momenti peggiori non strappa le agende, non butta via i ricordi. Anche se non le riesce sempre, non rinfaccia a chi le sta intorno le sue disgrazie. Non è colpa loro. Riesce perfino a percepire quando sta per arrivare il tormento. Se se ne accorge in tempo, estrae l’artiglieria pesante e schiva l’attacco. Ha imparato che dovrà ricominciare ogni giorno, che non deve abbassare la guardia, che non può essere perfetta, che nella vita non sempre si vince. È facile dirlo. Il suo è un male cronico e chiunque sostenga: “Ne sono uscito” sta mentendo. Lei può dimenticare la malattia, ma la malattia non la dimentica mai. Pratica attività manuali, si assolve e si perdona più di prima, chiama le cose con il loro vero nome e prova a non scappare. Non finge di essere chi non è. Cammina, suona, canta, ascolta musica, legge, scrive, cammina ancora, pensa il più possibile al presente. Se sta male piange. Dice quello che ha nel cuore a chi la ascolta, accettandone le conseguenze. Poi si asciuga il viso e si sforza di uscire, cerca gli amici per non stare sola. Vuole rendere il suo male oscuro piccino e innocuo, ma non lo maltratta più, né lo sfugge. Vive.

 

Testo tratto da: Le Storie siamo noi, Donne di Parola, Fernandel 2023, pp. 288

 

Il libro è un’operazione di riscatto della memoria, che permette di ‘salvare’ dall’oblio persone, avvenimenti, territori altrimenti condannati a scomparire dallo scorrere del tempo. Attraverso due guerre mondiali, il fascismo, le migrazioni, e poi il ’68, la legge Basaglia, il terrorismo, le leggi su divorzio e aborto, le stragi di mafia, l’incendio al cinema Statuto, le vittime dell’Eternit, fino all’epidemia di Covid-19, le storie narrate ci parlano di coraggio, amicizia, rabbia, vergogna, riscatto… Ma anche di impegno e militanza civile, sociale e politica. Scoprendo ai margini della Storia il ruolo delle donne, depositarie da sempre di drammi, gioie, scelte eroiche, cambiamenti epocali. Le vicende narrate si svolgono nelle regioni d’Italia ma anche in Transilvania, Africa, America e nelle terre dell’emigrazione italiana.

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Commenti: 1
  • #1

    angela donna (domenica, 20 agosto 2023 23:18)

    Una splendida scrittura, una grande consapevolezza e lucidità nella descrizione. Da brivido. Complimenti all'autrice.

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