Vi fareste salvare da un bagnino che ha paura del mare? E da uno a cui non piace il mare, a cui dà fastidio l’acqua salata e per cui è restio a tuffarsi? No, vero? Anzi vi sembrano persino paradossali le domande.
Chi presta soccorso, chi opera nel campo dell’aiuto all’altro, dell’assistenza e della cura deve non solo cercare di conoscere la o le situazioni che tenta di modificare in meglio ma anche le persone che vivono tali situazioni, senza pregiudizi, moralismi, paure o filtri.
Nel caso della malattia psichiatrica, in tutte le sue forme, occorre che chi opera per la cura e riabilitazione non abbia giudizi e atteggiamenti prevenuti.
Le persone che giungono ai servizi psichiatrici hanno storie diverse e diversi quadri psicopatologici. Ogni storia è una storia a sé, che va affrontata nella sua unicità, cercando certo di inserirla in un quadro che prevede un insieme di sintomi, una o più diagnosi e una relativa terapia. Ma, pur accettando quella normale e sana dose di allarme nei confronti dell’ignoto e dell’imprevedibilità, occorre accogliere chi si ha di fronte senza giudicarlo. Potrà essere uno schizofrenico delirante, per cui il suo delirio è l’unico rifugio che lo difende da un mondo che non comprende e che non lo comprende e non lo accetta. Potrà essere un tossicodipendente con un passato fatto di tante e tali fragilità per cui i suoi atteggiamenti manipolativi si ritorcono contro di lui e lo avvolgono in una spirale perversa. Potrà essere la donna abusata, da bambina o perché prostituta, che si porta addosso ferite che non riesce a vedere in modo lucido e che modulano le sue emozioni prevalentemente sul versante della rabbia. Potrà essere la ragazza anoressica che vuole bloccare il suo corpo in una dimensione allucinata per richiamare l’attenzione su una carenza d’affetto per troppo tempo subita.
Di fronte avremo comunque sempre una persona molto, troppo sensibile, attenta alle minime cose. Attenta ai nostri sguardi, alle più piccole dimostrazioni di affetto come anche di repulsa.
Un esempio lampante di come “è sempre possibile una relazione” (così s’intitola un paragrafo del libro Istruzioni per essere normali edito da Rizzoli, pag. 19, edizione del 1999) è l’esperienza che lo psichiatra Vittorino Andreoli racconta ricordando il suo lavoro presso l’ospedale psichiatrico di Verona. Un paziente agitato, che stava spaccando tutto, è stato avvicinato dallo psichiatra il quale si è messo anche lui a spaccare (in verità suppellettili già frantumate). Paradossalmente il malato si è quietato. Come mai? Lo racconta Andreoli: “attraverso il mio comportamento si era stabilita una relazione che aveva avuto il potere di toglierlo dal suo isolamento. A spaccare tutto eravamo in due. Pur attraverso le più strane vie e modalità, una relazione è sempre possibile, con immediati effetti terapeutici 1”. Vedo già la reazione di chi afferma che gli psichiatri non possono certo mettersi a spaccare solo perché lo fa un paziente. Non è questo! Quello che ci dice Andreoli è che occorre cercare di capire il linguaggio del paziente, specie quando è (per noi) incoerente, illogico, irrazionale o, ancora, non verbale ma comportamentale.
Quello che occorre è un moderato e cauto coraggio, una voglia di mettersi in discussione, una duttilità che ti porta a verificare e riverificare la situazione, le emozioni, il contesto in un divenire mutevole da valutare utilizzando l’arma dell’umanità più che dell’aggressività e/o del rigido arroccamento. Tenendo conto che, come affermano lo psicanalista Renzo Carli e la psicoterapista Rosa Maria Paniccia per quanto riguarda la relazione psichiatra-malato psichico, “è possibile cogliere la violenza intrinseca alla relazione in questione: un medico ritiene di poter imporre cure, per altro poco efficaci quanto alla guarigione ma efficaci solo nell’ambito del rendere possibile il controllo del comportamento, a un malato che non è consapevole del proprio essere malato2”.
Più del rapporto autoritario è utile e terapeutico un rapporto autorevole perché carico di valenze umane. Come sostiene Antonio Imbasciati “ciò che occorre è una trasmissione di affetti, che possa passare attraverso le parole3”. Ma più che le parole ha importanza il linguaggio non verbale, perché più spontaneamente dimostra il nostro essere. Sempre Imbasciati fa l’esempio della “buona madre” che utilizza la comunicazione non verbale spontaneamente e senza accorgersene. “Se c’è empatia col suo bimbo, sembrerebbe che il suo inconscio sia capace di modulare la sua comunicazione non verbale in modo da rispondere adeguatamente ai messaggi del bimbo e così organizzare e promuovere il suo sviluppo psichico. Un buon analista dovrebbe allora poter rispondere allo stesso modo, cogliendo i messaggi non verbali del paziente e rispondergli in modo benefico4” e cioè terapeutico.
Non è facile ma è la parte più bella della relazione umana. Come afferma lo psichiatra Antonello Correale la rigidità è tipica della malattia mentale. Dobbiamo ricordarcelo quando ci arrocchiamo in certe nostre rigidità di pensiero, di comportamento, di rapporto gerarchico o altro.
Rischieremmo di non essere terapeutici ma di avere, noi, bisogno di cura.
Gianfranco Conforti
MenteInPace, Cuneo
1 – Andreoli Vittorino, Istruzioni per essere normali, Rizzoli, Milano, 1999, pagg. 19-20;
2 – Carli Renzo, Paniccia Rosa Maria, La cultura dei servizi di salute mentale in Italia, Franco Angeli, Milano, 2011, pag. 48;
3 – Imbasciati Antonio, Dalla Strega di Freud alla nuova metapsicologia, Franco Angeli, Milano, 2013, pag.200;
4 – Imbasciati Antonio, op. cit., pag.209;
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