NULLA SU DI NOI SENZA DI NOI (Rita Ansalone)

 

NULLA SU DI NOI SENZA DI NOI - 1978

di Rita Ansalone

 

DA Stefania Garini

17/4/2023 10:25

A  menteinpace@libero.it  

 

Da qualche mese Fabrizio e Angelo escono tutte le volte che Marco, il giovane volontario, viene a prenderli per «una mezza giornata d’aria». Ricoverati da anni al Cottolengo, l’uno perché costretto su due moncherini, l’altro per un difficile parto col forcipe, non riescono più ad accettare quella vita. Le messe e i rosari obbligatori scandiscono le loro giornate. Nei cameroni di venti o trenta letti non hanno neppure un armadio, tanto i vestiti li scelgono le suore che li preferiscono incapaci di qualsiasi decisione. Tutto questo l’hanno sopportato troppo a lungo. Grazie alla scuola esterna all’istituto, Fabrizio e Angelo si sono rivelati intelligenti quanto neppure avrebbero immaginato. I compagni, che all’inizio li tenevano a distanza, ora hanno imparato ad apprezzarli e a rispettarli. I primi desideri di una vita diversa sono nati proprio lì, nelle discussioni con gli insegnanti e gli altri ragazzi. Ormai sono diventati impazienti. Angelo si oppone alle suore con uno studio forsennato, cumuli di libri divorati in modo famelico, tutto per non essere travolto dalla rabbia che lo soffoca. Fabrizio usa la musica ad alto volume per far tacere la tentazione di scomparire che si affaccia in certe giornate, per cancellare il ricordo dei familiari che lo nascondevano quando suonava il campanello. Neppure il trasferimento nel reparto degli anziani, che vivono aspettando la morte, ferma Angelo, che crea un gruppo di discussione sulla loro sessualità disperata e solitaria, sulle idee politiche di sinistra che nulla hanno a che fare con la Democrazia Cristiana tanto apprezzata nell’istituto, sulle punizioni date a chi rifiuta le preghiere e le confessioni settimanali. Presto Marco, il volontario, li presenta agli amici, che chiama “compagni”, e con il passare del tempo Angelo e Fabrizio imparano a fidarsi fino ad esprimere un desiderio insopprimibile: «Vogliamo uscire da qui!» Il primo passo è essere autonomi negli spostamenti. Poi, con l’appoggio del gruppo, faranno insieme domanda di un alloggio popolare per le categorie svantaggiate. Ora bisogna realizzare il primo obiettivo, propone Angelo, determinato e razionale: ottenere il diritto al trasporto pubblico. «Un gruppo sale alla fermata del 10. Voi intanto mi seguite a Porta Nuova sul 4», grida al megafono. In questo sabato di febbraio si mostrerà alla gente quanto è difficile salire sul tram, se si devono usare le stampelle o la carrozzina. Cercheranno di spiegare i motivi di tutto quel trambusto a chi si ferma incuriosito. Io intervengo in via Milano. L’attesa mi ha logorata. Fatico ad accettare l’aiuto, se mi viene offerto, e ora scapperei. Marco capisce e, mentre distribuisce i ciclostilati sulla manifestazione, avvicina il braccio; così io, facendo leva con le stampelle, riesco a superare gli scalini. Alla fermata successiva sale una persona in carrozzina. Il tempo di attesa si moltiplica, mentre io commento a voce alta: «Se i tram avessero un semplice scivolo, tutto sarebbe più facile. Per noi, per gli anziani, per le donne con i passeggini!» Lungo le linee scelte per la nostra manifestazione gruppi di due o tre disabili salgono con striscioni ben in vista: «Mezzi pubblici per tutti». In breve è il caos. I ritardi si accumulano e i tram bloccati anche. Già iniziano i borbottii: «Dovrebbero restare negli istituti! Invece fermano mezza città perché non riescono a fare gli scalini. Io ho figli a casa che aspettano!» Mi sale l’ansia. Li abbiamo provocati, e adesso? La folla è pericolosa. Mi è bastato essere buttata a terra da bambina perché tutti volevano vedere padre Pio! Angelo intanto si è avvicinato con la carrozzina e spiega le nostre ragioni. Certo non gli è facile, per le contrazioni della bocca, delle braccia, ma non vuole tacere. Insiste e ripete, mentre Fabrizio, più chiaro nel parlare, lo affianca. Da anni loro per uscire devono dipendere da un amico o da un volontario. Chi ha un diploma non cerca neppure lavoro. Come potrebbe raggiungerlo? E quelli che hanno perso ogni indipendenza dopo un grave incidente stradale e ora vivono segregati in casa? Per tutti usare i mezzi pubblici è una questione vitale, come l’acqua, come l’aria. Non se ne può fare a meno. I toni si smorzano: «Avete ragione!» C’è persino chi solleva la carrozzina del mio amico per aiutarlo. Alla fine della giornata Fabrizio e Angelo trascinano gambe e ruote oltre il portone del Cottolengo, rispondendo con lo slogan della manifestazione alla suora della portineria che li rimprovera per essere sempre in giro: «Nulla su di noi senza di noi». Lei non osa chiedere spiegazioni, tanto quei due sono mezzi matti. Io mi chiedo da cosa nasca tutta l’esaltazione che sento. Ho una situazione differente da quella di altri disabili. La mia bellissima Mini con cambio automatico mi rende indipendente, sono affascinata dal lavoro di insegnante, ho un minuscolo appartamento e uno stipendio. Con queste sicurezze ho deciso il distacco dai miei. Li ho salutati suscitando stupore e litigi. Ho voluto farlo a ogni costo, con durezza intransigente, per attrezzarmi a una vita che voglio libera. Mi sento in colpa, una privilegiata, perciò, quando riesco, mi metto a disposizione in qualità di autista. Nascono così forti legami di solidarietà. Mi immergo in un mondo che fino ad ora avevo tenuto a una certa distanza, forse per sentirmi altro, per non esserne risucchiata. Inizio a frequentare un gruppo di autocoscienza. Con stupore di tutte, disabili o meno, scopriamo che i problemi di noi donne sono in fondo gli stessi: la paura dell’abbandono, il confronto con un assurdo modello di bellezza, la precisa sensazione di non essere mai adeguate. Finora mi sono vista nella diversità, ora fatico ad abbandonare comode giustificazioni. Ecco perché amo tanto questo periodo: cresco. Il nostro blocco di febbraio non ha smosso le autorità. Alle riunioni, per decidere se e come procedere, vedo facce deluse. La vivacità e l’energia stanno appassendo. Noi teniamo duro. Non ci si può tirare indietro proprio adesso. Così a ottobre, con un assembramento di carrozzine, stampelle e megafoni, blocchiamo l’ingresso del municipio. Grazie a uno sforzo organizzativo incredibile ci siamo quasi tutti, accompagnati da amici e parenti. Con il trascorrere delle ore la piazza diventa inagibile, arrivano i giornalisti, e mentre alcuni si prestano a numerose interviste i più timidi si nascondono dietro le colonne. Il sindaco capisce di non poterci ignorare ancora. Deve scendere e ascoltare le nostre richieste. Iniziano i primi incontri in via Assietta, la sede del nostro coordinamento. Sono i funzionari che si spostano per discutere. Non noi, la sede del comune abbonda di scale. I confronti sono impegnativi, a volte entusiasmano e più spesso deprimono. Sembra impossibile riuscire a eliminare le barriere, ma gli architetti che da tempo studiano con noi la legge 118 e le soluzioni tecniche, danno forma concreta al sogno: una vita possibile per tutti. Capita che nella testa ci risuonino parole vecchie: non fantasticare, le delusioni fanno molto male, fuori il mondo è cattivo. La voglia di indipendenza ormai è fame. Dopo lunghi mesi di lavoro, il comune delibera: «Servizio di trasporto mediante taxi destinato alle persone fisicamente impedite all’uso dei mezzi pubblici». Con la testardaggine, la speranza, la solidarietà e lo studio, abbiamo immaginato e poi costruito pezzo per pezzo una strada che consentirà future, nuove libertà.

 

Rita Ansalone

 

Tratto dal libro:

Le Storie siamo noi, Donne di Parola, Fernandel 2023, pp. 288, euro 15

 

 

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