LE PAROLE RITROVATE IN GIAPPONE. Come e perché di un legame stretto

In Giappone ci sono mille ospedali psichiatrici, con 300mila persone ricoverate. A Kagoshima tuttavia una psichiatra e un ex operatore di questi manicomi hanno messo in piedi una piccola casa editrice, in cui lavorano oggi una settantina di persone con problemi di salute mentale. A ispirarli? L'esperienza italiana del fareassieme e dell'associazione Le Parole Ritrovate.

 

Articolo segnalato da Andrea Puecher

Presidente dell’Associazione “Il Cerchio-Fareassieme” di Trento

Sulla chat di WhatsApp INCONTRI PAROLE RITROVATE

08/04/2024 – 6:29

(Andrea ha fatto parte della delegazione di Parole Ritrovate che è andata a Kagoshima ad inizio Aprile)

 

 

 

di Sara De Carli

2 aprile 2024 –

www.vita.it

 

Questa storia si snoda fra l’Italia e il Giappone, per la precisione fra Trento e Kagoshima, soprannominata la “Napoli del Giappone”. I protagonisti di questo dialogo sono tre: Renzo De Stefani, psichiatra che ha diretto fino al 2018 i Servizi di salute mentale della provincia di Trento, introducendo l’approccio del fareassieme che vede coinvolti utenti, familiari, operatori e cittadini; Maya Morikoshi, psichiatra, presidente della Casa Editrice Laguna e direttrice della Laguna Clinic; Yoshihiro Kawabata, operatore di assistenza sanitaria mentale (una figura simile al nostro TeRP) e direttore della Casa Editrice Laguna.

I primi protagonisti di questa storia bellissima, però, sono altri e sono molti di più: sono le 32 persone con problemi di salute mentale, ex-pazienti di ospedali psichiatrici, che oggi lavorano nella Casa Editrice e i 39 impiegati in “Polano Polari”, ovvero le attività di cucina, agricoltura, artigianato, arte gestite da Laguna. Una settantina di persone dunque, insieme a cui lavorano 18 operatori di salute mentale. Persone che oggi, grazie a questo progetto, hanno trovato il loro posto nel mondo: e non è in un manicomio. 

Il Giappone, premette De Stefani, «ha un approccio alla salute mentale storicamente centrato sui manicomi, che sono in larga parte strutture private. Nei confronti della malattia mentale lo stigma è ancora altissimo, in confronto a quello che c’è in molti altri Paesi occidentali ad esso comparabili». I numeri di contesto ce li danno Morikoshi e Kawabata, basandosi un report del Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare datato giugno 2022In Giappone i pazienti con malattie mentali sono circa 4,2 milioni, di cui 3,9 milioni seguiti ambulatorialmente e 302mila ricoverati. La malattia mentale – precisano – include anche l’epilessia, i disturbi dell’adolescenza e dello sviluppo, le malattie mentali degli anziani, la demenza, le dipendenze. Gli ospedali psichiatrici sono 1.056 in tutto il Paese (dato relativo al 2021) e per il 90% sono privati. Hanno 330mila posti letto, circa 2,6 per ogni mille abitanti. Per fare un confronto, in Italia sono 320mila i posti letto disponibili complessivamente in strutture residenziali socio-sanitarie per anziani e persone con disabilità. Il numero di pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici è diminuito negli ultimi 15 anni, ma il numero dei TSO è in aumento. Sono in crescita anche i casi in cui i pazienti vengono posti in isolamento (7.741 casi nel 2003 e 12.689 casi nel 2020) e quelli in cui viene utilizzata la contenzione fisica (5.109 casi nel 2003 e 10.995 casi nel 2020). La durata media del ricovero è di 277 giorni.

 

 De Stefani, cominciamo dall’inizio. Che cosa ha a che fare lei con Kagoshima? 

 

De Stefani: Un giornalista giapponese, diversi anni fa, lesse non so come di un episodio accaduto in Abruzzo, in cui un padre aveva ucciso un figlio con una disabilità intellettiva. In Giappone purtroppo succede che i genitori di una persona con un disagio psichico importante, non reggendo lo stigma, la uccidano. Così quel giornalista venne in Italia per fare una sorta di comparazione. In quell’occasione finì a Trento da me e poi, tornato in Giappone, scrisse un articolo sulla nostra psichiatria territoriale. Le cose sono iniziate così. È stato quello “il gancio” che mi ha fatto incontrare Maya Morikoshi e Yoshihiro Kawabata, che avevano già aperto la loro casa editrice con l’idea del recovery. Sono venuti a Trento più volte, portando alcuni utenti. Una volta sono rimasti un mese e mezzo, con l’intento di capire meglio l’approccio del “fareassieme”, cioè del dare protagonismo a utenti e familiari. Hanno anche scritto un libro su quello che hanno visto qui. Da allora siamo sempre rimasti in contatto e anche nell’ultimo incontro delle Parole Ritrovate, a Pavia, abbiamo fatto un lungo collegamento con loro: ci hanno raccontato come hanno declinato in Giappone il nostro approccio e come anche loro hanno attivato gli “Ufe” ossia gli utenti familiari esperti. Ora siamo noi a ricambiare la visita: in questi giorni infatti siamo in partenza per Kagoshima.


La vostra storia, qual è?

 

Yoshihiro Kawabata: Ho lavorato in un ospedale psichiatrico per dieci anni e sono rimasto sconvolto dalla presenza di pazienti di lunga degenza, costretti a rimanere in ospedale per decenni e diventati così letargici oppure pazienti usciti dall’ospedale solo dopo la morte… Lavorando con questi pazienti, ho sempre sentito il desiderio di conservare le loro parole. Allo stesso tempo, nell’ospedale psichiatrico, mi rendevo conto che agivo secondo i desideri dell’ospedale e non secondo i miei: provavo un forte senso di impotenza. Credevo che la cura e il recovery potessero essere trovati nella comunità, non in ospedale, ma potevo solo sentirmi arrabbiato e senza speranza, impotente. Prima di lavorare nell’ospedale psichiatrico, avevo lavorato in una casa editrice: così i pazienti, che lo sapevano, iniziarono a portarmi poesie e romanzi. Abbiamo iniziato a riunirci con i pazienti ricoverati, tenendo incontri su un tema specifico e poi abbiamo allargato gli incontri ai pazienti ambulatoriali e abbiamo pubblicato la nostra prima rivista, intitolata “I Sorrisi di Sinapsi”. Nel 2006, insieme con Maya Morikoshi, la psichiatra che lavorava nello stesso ospedale, ho fondato Laguna – una onlus – per vendere i nostri libri. Da allora le opportunità di incontro e riunione con i pazienti sono aumentate.

Nel 2000, in Giappone è finalmente emerso un movimento volto a spostare la cura dei pazienti psichiatrici dagli ospedali alla comunità. Nel 2006 è stato promulgato l’Independence Support Act per consentire alle persone con disagio mentale di lavorare e frequentare un centro di cura ma vivendo nella comunità. Nel 2008, in base a questa legge, abbiamo fondato la nostra azienda, la Casa Editrice Laguna, che ha l’editoria come core business. La sfida era dimostrare che “la cura e il recovery possono essere trovati solo nella comunità”. La nostra azienda svolge attività di produzione editoriale insieme agli utenti, ricevendo un compenso dal governo, in cambio della fornitura di servizi sociali.

 

Da dove viene il nome dell’azienda, Laguna Publishing?

 

Yoshihiro Kawabata: Deriva da una scena che abbiamo visto durante un viaggio a Venezia. L’idea è nata dal vedere isole uniche (individualità) fluttuare nel mare (interezza). È un’immagine ideale per dire del rispetto dell’individualità dentro un mondo vasto come il mare. Abbiamo anche avuto un’ispirazione dal fatto che una varietà di esseri viventi vivono e coesistono nelle lagune e che le piane di marea aiutano a purificare il mare. L’azienda è stata ispirata da un laboratorio di rilegatura in Italia e ora abbiamo dei rilegatori molto bravi. 

 

Che cosa vi ha spinto inizialmente ad avere un approccio alla salute mentale così diverso da quello che in Giappone è culturalmente prevalente?  

 

Maya Morikoshi: Il fatto che anche i pazienti che sono ricoverati per lunghi periodi in reparti chiusi e vivono in ambienti opprimenti hanno il loro mondo da raccontare con le loro parole. Volevo condividere le loro parole con quante più persone possibile. Sentivo e sento che le parole delle persone che convivono con la malattia e di coloro che l’hanno superata hanno una profonda spiritualità e il potere di incoraggiare le nostre vite.

 

Che cosa oggi vi conferma che la strada è quella giusta? 

 

Maya Morikoshi: Vedo che ci sono meno ricadute di malattie tra i nostri dipendenti e che i loro sintomi stanno diventando più lievi. Le persone che inizialmente si riteneva avessero difficoltà a lavorare, ora lavorano con soddisfazione e impegno nei loro ruoli. Sono felice che Laguna sia riuscita a creare un percorso come questo. Ma soprattutto, lavorare insieme a loro mi ha reso più felice di ogni altra cosa. Mi sono convinta che l’istituzionalizzazione toglie dignità anche a chi lavora nelle strutture, non soltanto a chi ci vive dentro. 

 

Yoshihiro Kawabata: Forse il fatto che sia la strada “giusta o meno” è una questione relativa, determinata dalla storia e dalla cultura. È difficile rispondere quanto, ad esempio, dire se il capitalismo abbia o no ragione. Però c’è una frase che mi viene sempre in mente quando interagisco con gli altri, quella dell’imperativo categorico di Kant: «Agisci in modo da considerare sempre l’umanità, nella tua persona e in quella di tutti gli altri, sempre come un fine e mai solo come un mezzo».

 

Quali risultati avete raggiunto? 

 

Maya Morikoshi: Le nostre pubblicazioni delle parole dei pazienti ci hanno portato in contatto con tante persone e ci hanno aperto strade inaspettate. Per esempio, abbiamo pubblicato una serie di libri con lo psichiatra Hisao Nakai, con cui siamo entrati in contatto proprio tramite le nostre pubblicazioni. Quei libri sono composti di dialoghi fra i pazienti, operatori, medici, sul processo della malattia: dall’esordio alla guarigione. I nostri rilegatori sono molto bravi e io sono felice di poter rifinire a mano le opere dei pazienti ricoverati, trasformarle in un libro e consegnarglielo. Credo che questo legame con l’Italia sia nato anche attraverso le nostre pubblicazioni contenenti le parole dei pazienti. Credo che le nostre attività dimostrino che ognuno ha forza, anche di fronte alla malattia.

 

Yoshihiro Kawabata: Ho potuto rendermi conto che la cura e il recovery, vivendo nella comunità, sono possibili. I nostri dipendenti, decidendo l’orario di lavoro individuale in base alla propria forza fisica o benessere e organizzando il contenuto del lavoro in base ai punti di forza di ciascuno, sono in grado di mantenere la stabilità mentale e fisica. L’azienda è suddiviso in settori amministrativo, editoriale, di progettazione, vendite e produzione e ho imparato che avere ruoli chiari per ciascun settore aumenta l’autoefficacia e la fiducia in sé stessi delle persone. Questo senso di autoefficacia e fiducia sono molto importanti, sia per la prevenzione e la cura della malattia, sia nella gestione dell’azienda. Oggi la rivista “I Sorrisi di Sinapsi” ha pubblicato 52 numeri e abbiamo pubblicato oltre 100 libri. Per esempio proponiamo anche dei piccoli libri illustrati, realizzati a mano, per festeggiare il compleanno dei bambini da 0 a 3 anni: piacciono molto. La nostra attività editoriale è diventata un lavoro stabile per i nostri utenti. Se invece devo risponderle personalmente, penso che il più grande risultato per me è il fatto che ora sento di avere il controllo della mia vita, perché agisco secondo i miei desideri e la mia volontà.

 

Qual è stata o qual è la sfida o l’ostacolo più grande?

 

Maya Morikoshi: Alcuni dei pazienti, che ogni giorno scrivono a Laguna, sono ricoverati in ospedale da lunghi periodi, anche da 20 o 30 anni. Quando abbiamo fondato l’azienda, credevamo che il nostro compito fosse quello di trasmettere le parole dei pazienti, ma ora siamo arrivati a pensare che non dobbiamo solo ricevere le parole, ma anche agire. Conoscendo la storia della salute mentale italiana e conoscendo le persone che ancora oggi lottano per realizzare la buona cura, mi sento un gran coraggio di andare avanti: ma per diffondere un’attività come quella di “Le Parole Ritrovate” in Giappone, abbiamo bisogno di più amici e di un grande sostegno da parte dei cittadini. Solo così potremo organizzare il movimento. Penso che la sfida futura sia come espandere le nostre attività nella comunità più ampia.

Yoshihiro Kawabata: Quando è stata fondata l’azienda, ero convinto che la cosa migliore fosse quella di non stressare troppo gli utenti-dipendenti, quindi mi sono occupato di tutto io: seguivo la pianificazione, la contabilità, le vendite, l’editing dei libri. Dopo quattro anni ho raggiunto il mio limite, ero completamente esausto. Così mi sono preso una pausa e quando sono tornato in ufficio sia gli operatori che gli utenti-staff stavano lavorando bene. Ho detto a un’utente-staff: «Scusa se mi sono preso una pausa dal lavoro». Lei mi ha risposto: «Figurati, in verità in questa occasione sono riuscita a trovare il mio ruolo e, per la prima volta, ho sentito che questo era il posto a cui appartengo». Ecco, il primo ostacolo è stato il mio modo di pensare, sottovalutando le capacità del personale e degli utenti-staff e non fidarmi completamente di loro. Da quel momento, ho cercato di dividere i lavori in parti più piccole, per chiarire i ruoli degli operatori e di ciascun utente-staff. Ormai in azienda si è sviluppata una cultura per cui le persone che hanno più familiarità con il lavoro, siano essi operatori o utenti-staff, insegnano il lavoro a coloro che non lo capiscono. C’è un’atmosfera di fiducia e affidamento, di riconoscimento degli altri, e di gioire insieme per quello che noi facciamo.

 

Un secondo ostacolo è stato il Covid-19 perché gli ordini per la produzione di biglietti da visita e vari materiali stampati, che erano un’importante fonte di reddito quanto l’attività editoriale, sono completamente venuti meno e l’azienda quindi ha attraversato una grave crisi finanziaria. Ci hanno salvato gli imprenditori e gli enti privati che ci hanno dato ordini per dei libri autopubblicati. Hanno capito la nostra situazione difficile. Sebbene la pandemia sia stata una sfida, è stata anche un’opportunità per capire che Laguna è supportata da tante persone. Alla fine però penso che non c’è sfida più grande delle domande: sono le domande che mi rendono quello che sono e che fanno di Laguna quello che è. Le domande sono queste: “Piuttosto che lavorare solo dopo la guarigione, c’è un modo migliore per aiutare le persone a riprendersi mentre lavorano?”. E ancora: “È possibile per un’azienda risolvere dei problemi sociali?” Sono le domande che continuerò a pormi, per andare avanti.

 

Le Parole Ritrovate cosa sono?

 

Renzo De Stefani: Le Parole Ritrovate nascono nel 2000 da un piccolo gruppo di «sognatori» che si trovano sempre più a disagio in una salute mentale che non sa e non vuole dare voce agli utenti, relegandoli ai margini della loro vita e della comunità. Siamo partiti con l’idea che le parole ritrovate siano quelle degli utenti. Ma fin dal primo incontro svoltosi nel 2000, pur con tutte le incertezze degli inizi, abbiamo capito che la “strada giusta” è quella di dare voce e presenza, alla pari, a tutti i protagonisti del mondo della salute mentale: utenti, familiari, operatori e cittadini. Questa «strada» è diventata l’elemento distintivo di Parole Ritrovate, rendendole «uniche» nel mondo della salute mentale italiano. Le Parole Ritrovate si riconoscono fin dai primi anni nell’approccio del fareassieme, un approccio nato a Trento nel 2000 e diffusosi rapidamente in altre realtà italiane ed estere. In pochi anni Le Parole Ritrovate diventano il movimento nazionale e internazionale in cui si riconoscono tutte le realtà che si ispirano al fareassieme: abbiamo fatto un viaggio da Venezia a Pechino con 208 utenti, operatori, familiari e cittadini; abbiamo costruito una scuola a Muyeye in Kenya; stiamo collaborando all’apertura di un Centro di salute mentale a Kochi in India… 

 

Il fareassieme cos’è?

 

Renzo De Stefani: È un approccio in cui utenti, familiari, operatori e cittadini attivi imparano a pensare e a lavorare assieme, in una logica di corresponsabilità, coprogettazione e recovery. Si valorizzano la presenza e le risorse di tutti, il sapere professionale degli operatori e quello esperienziale di utenti e familiari, in un clima amicale e ricco di affettività. Si affronta la malattia in una logica di squadra, partendo dai servizi di salute mentale ma poi allargandosi a tutta la comunità. È il credere che le persone con disagio psichico recuperino qualità di vita, partecipazione nella comunità, nei servizi, nella famiglia, con livelli crescenti di responsabilità. Abbiamo iniziato a Trento nel 2000, è stata una sfida per far funzionare bene un Servizio che allora era disastroso: coinvolgendo nella vita del servizio utenti e famigliari, il nostro servizio nel giro di un anno è diventata una realtà che ha prodotto risultati importanti per gli utenti e i familiari. Da tante parti di Italia e del mondo sono venuti a conoscere la nostra esperienza.

Fareassieme è un dare e ricevere: anche in posti dove pensavamo che non avremmo imparato granché, abbiamo sempre avuto controprova che si impara sempre e comunque e che se non si impara è perché si è presuntuosi. Il punto centrale è che utenti e famigliari non sono quasi mai accreditati come portatori di un sapere, mentre hanno un sapere esperienziale che – se mescolato in maniera complementare al sapere professionale – crea un laboratorio di saperi che comporta un arricchimento reciproco. Mescolando le due cose si cresce entrambi. 

 

Il fareassieme a Basaglia come si lega? 

 

Renzo De Stefani: Lei sa che Basaglia è morto giovanissimo, a 56 anni, quando era ancora tutto da scrivere che cosa si sarebbe fatto in Italia dopo la chiusura dei manicomi. Chiusi i manicomi, secondo la legge i servizi territoriali si sarebbero occupati di salute mentale ma la legge non diceva come. Io ho lavorato nei manicomi, ho conosciuto Basaglia: ero appena laureato, io ero in Toscana, ad Arezzo: tutti noi giovani psichiatri andavamo a sentirlo come “il Verbo”, aveva un grande carisma. La sua scommessa era quella di ridare dignità, voce, cittadinanza a chi doveva uscire da quei lager. Ma quella era una partita tutta da inventare: una volta chiusi i manicomi, Basaglia doveva essere leader della nascita della salute mentale di comunità. Invece dal 1978 in poi, se facciamo una ricognizione di cosa è stata la salute mentale in Italia, vediamo che gli operatori dei manicomi sono stati mandati sul territorio con la stessa cultura professionale di prima, c’è stata una grandissima confusione e una scarsa accettazione da parte degli italiani verso la legge 180, non è mai stata amata. C’era di tutto sui territori, esperienze con una grande difformità. Questo spiega perché ancora oggi l’Italia in questo senso è a macchia di leopardo, con esperienze antitetiche nella stessa regione.

Io me lo chiedo sempre: se Basaglia fosse vissuto più a lungo, che cosa avrebbe fatto? Io penso che avrebbe fatto cose molto vicine a quelle che oggi vanno sotto il nome di recovery e che noi chiamiamo fareassieme. Si sarebbe impegnato affinché gli utenti e i famigliari avessero partecipazione, responsabilità, presenza nella comunità. Per la lotta allo stigma. C’è quella frase famosa da poster, sulla libertà terapeutica e sul fatto che tanto più una persona si sente libera e tanto più riesce a uscire dal disagio psichico. Io credo che libertà, responsabilità e partecipazione sono le tre parole che oggi Basaglia continuerebbe a fare sue.

 

Tratto da: https://www.vita.it/storie-e-persone/cosi-basaglia-e-arrivato-a-kagoshima/

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